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TIRO al BARATTOLO

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“stato permanente di peccato”

Quando sento dire di “stato permanente di peccato” mi viene la pelle d’oca. Cosa significa questa espressione, che per certa gente non c’è misericordia che tenga che non c’è prospettiva di guarigione?
A pensarci bene tutti viviamo la stessa situazione, è possibile che un accurato servizio di lavanderia restituisca l’originario candore, ma basta un nonnulla, una disattenzione da poco, una sudata improvvisa per essere punto e a capo. Lo stato permanente di peccato è dato dalla nostra stessa condizioni di uomini, fatti della stessa terra, con i medesimi sentimenti e le stesse ingiustizie. Sul piano della carità, della condivisione, di dare ospitalità nella propria casa, dello spezzare il pane, del perdono, dell’amore per i nemici, per tutti i peccati di “omissione” siamo tutti sulla stessa barca e non credo che ci sia un peccato che sia più peccato degli altri.
Anche Gesù ha avuto a che fare con persone che nell’altrui considerazione erano in “stato permanente di peccato”:i pubblicani e le prostitute. Notevole quando Gesù ci dice che proprio loro «vi passano avanti nel regno di Dio» (Mt 21,31).
Per questi svantaggiati della vita, Gesù ha una particolare predilezione e apprezza la loro accoglienza. A chi rimproverava il suo atteggiamento ha risposto: «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati. Andate a imparare che cosa vuol dire: Misericordia io voglio e non sacrifici. Io non sono venuto infatti a chiamare i giusti, ma i peccatori» (Mt 9,12-13).
Anche di fronte ad un atteggiamento troppo legato alle prescrizione ad ai precetti afferma la stessa cosa: «Se aveste compreso che cosa significhi: Misericordia io voglio e non sacrifici, non avreste condannato persone senza colpa» (Mt 12,7). I principi, per quanto sacrosanti, non ci sono dati per condannare le persone a vita. Infatti: «La misericordia ha sempre la meglio sul giudizio» (Gc 2,13).
Nella parabola del banchetto nuziale (Mt 22,1-14) quelli che sono raccolti dai crocicchi delle strade sono “cattivi e buoni”, senza distinzioni, perché tutti partecipino dei cibi preparati. Il racconto non ci dice se colui che non indossava l’abito nuziale apparteneva ai buoni o ai cattivi; il rifiuto dell’abito è il rifiuto alla condivisione della festa. Il desiderio di appartenere a quel banchetto nuziale, di condividere l’alleanza con Dio fa la differenza, non lo stato di peccato più o meno presunto.
Ancora una considerazione mi viene dal Cap. 7 di Matteo in cui il Signore ci chiede di guardare ai frutti che la vita produce. Non di rado situazioni di errore, di sofferenza, situazioni pesanti, una volta superate riescono a lasciare un terreno buono in cui i buoni frutti abbondano.
Ancora un pensiero me lo suggerisce san Paolo, è una idea su cui giro intorno da un po’ di tempo: la proiezione verso il futuro. «So soltanto questo: dimenticando ciò che mi sta alle spalle e proteso verso ciò che mi sta di fronte, corro verso la mèta, al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù» (Fil 3,13-14). Tanto forte è l’attrazione per il futuro che “dimentica” ciò che sta nel passato; ancora Paolo sembra affermare che il passato non ci appartenga se, a quanto pare, non lo cita: «il mondo, la vita, la morte, il presente, il futuro: tutto è vostro! Ma voi siete di Cristo e Cristo è di Dio»  (1Cor 3,21-23).
Mi pare che l’appartenenza a Cristo sia la chiave di volta che ci libera dall’appartenenza permanente al peccato.